Rocco Pugliese era un
giovane militante comunista calabrese (vedi ritratto
e foto), assassinato nel
1930 dai secondini fascisti nel penitenziario
dell'isola di Santo Stefano,
nell'arcipelago delle Ponziane, dove era stato deportato in seguito
alla condanna ricevuta nel 1928 dal "tribunale" speciale
fascista.
Rocco era nato il 27 gennaio 1903 a Palmi, in provincia di Reggio
Calabria, da Giuseppe Pugliese e Maria Polimeni, e fin da giovanissimo
aveva militato nel Partito Socialista, per poi essere tra i fondatori
nel 1921 della sezione di Palmi
del Partito Comunista d'Italia,
diventandone in seguito il segretario, all'età di diciotto
anni.
Rocco aveva avuto una decisiva formazione politica rivoluzionaria
durante il servizio militare di leva, svolto a Torino, in una
città operaia, nella quale il movimento comunista era molto
forte ed attivo. Il periodo del servizio militare fu una vera
e propria scuola quadri, e il ragazzo che tornò a Palmi
dopo il congedo era un dirigente comunista maturo e consapevole
(Pugliese
L.).
Nel 1925, all'epoca dei fatti che lo portarono a diventare vittima
degli assassini fascisti, Rocco aveva 22 anni ed era studente
di ragioneria. In paese Rocco era conosciuto anche con i soprannomi
di "Chiacchiarella" e "Mussuni".
(Bongiorno)
Le premesse
ai fatti di Palmi
Palmi,
cittadina calabrese che all'epoca aveva circa 15.000 abitanti
(oggi ne ha 19.000), era una roccaforte rossa, centro di un'intensa
attività politica socialista e poi comunista, in una zona
di grandi proprietà terriere (soprattutto ad indirizzo
agrumicolo ed oleicolo), con pesante sfruttamento della manodopera
bracciantile (Pugliese
L.). La sezione del
Partito socialista fu fondata poco dopo il devastante terremoto
di Messina e Reggio Calabria del 28 dicembre 1908, che provocò
vittime e danni nella cittadina. Il Circolo giovanile del Partito
socialista contava 80 iscritti, e 78 di essi votarono nel 1921
per la mozione comunista. (Bongiorno)
Una delle battaglie più significative del movimento rivoluzionario
a Palmi fu quella, vittoriosa, contro l'assurdo canone d'affitto
imposto dal Comune a chi viveva nelle baracche per i senzatetto
costruite dopo il terremoto, e rimaste in uso per vent'anni, fino
al 1928 (Pugliese
L.).
Il 27 giugno 1924 per protestare contro l'assassinio del deputato
socialista Giacomo Matteotti, la Confederazione
Generale del Lavoro proclamò uno sciopero simbolico di
dieci minuti , che il Partito Comunista invitò ad estendere
per tutta la giornata, come accadde a Palmi (Bongiorno), dove restò memorabile il corteo
in cui ben cinquemila antifascisti sfilarono andando a deporre
corone e fiori al cimitero della cittadina (Spezzano, 1975).
La forte presenza antifascista a Palmi ne fece il bersaglio di
violente aggressioni da parte delle squadracce fasciste, particolarmente
numerose, vista anche che il fascio di combattimento locale fu
uno dei primi fondati nella provincia di Reggio Calabria.
Il 4 novembre 1920, secondo anniversario della vittoria nella
guerra del 1915-18, un gruppo di fascisti, che comprendeva due
mafiosi, assoldati dai fascisti per contrastare le sinistre, uno
dei quali era il pregiudicato Santo Scidone, aveva attaccato la
Camera del lavoro di Palmi, devastandola. (Bongiorno)
Alle elezioni del 6 aprile 1924 i comunisti presentarono nel collegio
di Palmi un loro candidato, l'avvocato Diomede Marvasi. Due sere
prima delle elezioni i comunisti stavano affiggendo i loro manifesti
elettorali quando furono importunati da una squadra di mafiosi
capeggiata da Scidone, e Rocco Pugliese gli si fece incontro con
una pistola in pugno, si mise a parlare con gli aggressori e li
convinse a desistere dalla provocazione. (Bongiorno)
Marvasi andò molto vicini ad essere eletto: ottenne 929
voti, mancando il quorum per poco, in compenso fu eletto
Fausto Gullo. (Bongiorno) La sezione del partito contava
trecento iscritti, con centoottanta tesserati del circolo giovanile,
in gran parte contadini e braccianti, insieme a professionisti
e studenti.
La forza del movimento antifascista a Palmi si manifestava con
un continuo contrasto all'espandersi del nascente regime, come
quando al gerarca fascista Michele Bianchi fu per due volte impedito
di tenere un comizio a Palmi, provocando un corto circuito sulla
rete elettrica e spingendolo prima a sostare fuori dalla città
e poi a rinunciare alla manifestazione per motivi di sicurezza.
(Pugliese
L., Bongiorno)
Nel 1923 il capo degli squadristi fascisti, Roberto Farinacci,
venne a Palmi per difendere in Corte d'Assise i fascisti imputati
per uno scontro avvenuto a Maropati, un paese a 35 km da Palmi,
in cui i fascisti avevano assassinato il fratello del sindaco
mentre era stato ucciso un ricco finanziatore delle squadracce.
(Bongiorno)
In vista della Festa del Lavoro del 1° maggio 1925, nella
notte tra il 29 e il 30 aprile, per impedire le celebrazioni della
festa del Lavoro, dieci dirigenti antifascisti furono arrestati
con dei pretesti, tra essi Giuseppe Florio, e i fratelli Giuseppe
e Antonino Bongiorno. Questi
ultimi gridarono in strada degli strilli convenzionali mentre
la polizia li arrestava, e in questo modo Rocco Pugliese e Giuseppe
Marafioti, che abitavano vicino a loro, riuscirono a sfuggire.
(Bongiorno)
La risposta fu uno sciopero generale che si tenne il 2 e 3 maggio,
con manifestazioni di piazza che ebbero una tale partecipazione
di massa, che le autorità non osarono contrastarle. I fascisti
progettavano di turbare la protesta assalendo la sezione comunista,
ma i comunisti palmesi, guidati da Rocco Pugliese, li prevennero
devastando la locale sede del partito fascista, distruggendo i
cartelli ingiuriosi contro gli scioperanti e schiaffeggiando i
fascisti e costringendoli a sparire dalla circolazione. (Bongiorno, Pugliese
L.)
Il 20 luglio a Palmi si
celebrò la festa di Sant'Elia Profeta, con le tradizionali
scampagnate e canti e balli sul monte omonimo. I giovani comunisti
della città si riunirono cantando inni socialisti, ma furono
oggetto dell'aggressione del fascista Francesco Saffioti, che
sparò una fucilata contro il gruppo, senza colpire nessuno.
Inseguito per i boschi, Saffioti riuscì a fuggire, ma la
stessa notte la polizia arrestò tredici comunisti per tentato
omicidio, nella persona dello stesso Saffioti. Dopo tredici giorni
di carcere gli arrestati furono liberati, senza essere nemmeno
stati interrogati, grazie alle numerosissime testimonianze che
li scagionavano. (Bongiorno)
Il 15 agosto dello stesso anno una squadraccia di fascisti provenienti
dai paesi vicini si accampò nella notte alle porte del
paese per assaltare ed incendiare le baracche dei capi dei partiti
di sinistra di Palmi, ma fu messa in fuga da un centinaio di uomini,
guidati da Rocco e Giuseppe Pugliese e da Antonino Bongiorno,
che irruppero nell'accampamento dei fascisti vicino all'Istituto
Agrario. Rocco intimò al capo dei fascisti di allontanarsi
immediatamente da Palmi, in caso contrario sarebbero stati attaccati,
e i fascisti eseguirono. (Bongiorno)
Il terreno che generò i fatti del 30 agosto 1925 furono
le ripetute umiliazioni subite dai fascisti a Palmi, tanto più
cocenti in quanto subite da chi aderiva ad un'ideologia basata
sulla prepotenza e sul superomismo, mentre in molte altre parti
d'Italia gli squadristi spadroneggiavano incontrastati.
I fatti
della Varia
Il 27 agosto 1925 cominciarono in paese le celebrazioni della
Madonna della Lettera, con la
tradizionale festa della Varia,
un grande carro votivo che simboleggia
l'Assunzione, trascinato in processione da due o trecento portatori
(gli "mbuttaturi") per le vie del paese, con
l'accompagnamento dalla banda (dal 2013 la festa, insieme ad altre
tre analoghe manifestazioni italiane è inserita nel patrimonio
culturale immateriale dell'umanità dall'UNESCO, vedi link).
Nel 1925 i fascisti imposero che durante la festa la banda di
Frigento, una delle due coinvolte nella festa, suonasse il loro
inno "Giovinezza", e il presidente (fascista)
della commissione per i festeggiamenti, avallò questa prepotenza.
I fascisti vollero quindi imporre il loro inno anche durante la
processione, al posto della tradizionale marcetta composta da
Rosario Jonata, e i palmesi si ribellarono a questo sopruso, chiedendo
la restituzione dei contributi versati e boicottando il trasporto
della Varia, dato anche che i portatori per tradizione appartenevano
alle cinque corporazioni dei carrettieri, marinai, beccai, artigiani
e contadini, ed erano in maggior parte comunisti e socialisti.
I militanti di sinistra, primo fra tutti Rocco Pugliese, s'impegnarono
in un'opera capillare di convincimento per spingere i portatori
a boicottare il trasporto. (Bongiorno) In
effetti per il trasporto del carro si presentarono solo cinque
marinai e cinque carrettieri, e la processione, diventata ormai
sfilata politica fascista, fu boicottata perfino dai preti: infatti
se ne presentò solo uno. I fascisti furono costretti a
improvvisarsi portatori per portare a termine la processione.
(Bongiorno)
Le provocazioni squadriste continuarono, anche con insulti e minacce
ai militanti di sinistra nelle strade di Palmi, e la tensione
raggiunse il massimo alla mezzanotte del 30 agosto, mentre il
paese era riunito nella piazza principale, piazza Vittorio Emanuele,
oggi piazza 1° maggio,
per assistere ai fuochi artificiali. Antonino Bongiorno, Rocco
Pugliese e Giuseppe Marafioti erano anche andati a vedere il lancio
di palloni inneggianti alla rivoluzione sovietica, che avevano
fatto preparare. (Bongiorno)
I fascisti fecero irruzione tra i tavoli del caffé De Rosa,
che si trovava accanto alla sede del partito fascista, ma era
frequentato da comunisti e socialisti, insultandoli e intonando
ancora "Giovinezza". Rocco Pugliese invitò
a smettere la provocazione, iniziando a cantare "Bandiera
Rossa", ma fu subito aggredito a bastonate dal fascista
Rocco Gerocarni e reagì lanciandogli una sedia. Durante
la rissa furono sparati dei colpi di pistola che ferirono due
fascisti, Rocco Gerocarni, che morì il giorno seguente,
e Rosario Privitera, oltre a due passanti (vedi la notizia
su "l'Unità" del 2 settembre
1925 e la versione romanzata dell'Agenzia
Stefani, ripresa da "La Stampa" del 1° settembre
1925).
Secondo lo scrittore Leonida Repaci (vedi sotto) che era presente
ai fatti, il vero bersaglio dei colpi di pistola era lui stesso,
che sarebbe stato colpito di striscio da due pallottole, mentre
la terza uccise Gerocarni. I colpi erano stati sparati dall'alto,
dalla terrazza di casa Sambiase, di fronte al bar, dai fascisti
stessi, che colpirono per sbaglio il loro camerata Gerocarni.
Il movente dell'agguato era da inserirsi nel quadro dell'impennata
di violenze da parte dell'ala oltranzista del fascismo, guidata
dal capo degli squadristi Farinacci, per sbloccare la situazione
di stallo in cui era caduto Mussolini dopo l'assassinio di Matteotti
e le conseguenti reazioni degli antifascisti. L'obiettivo dell'aggressione
di Palmi era comunque un paese di saldi principi antifascisti,
che veniva così punito per non volersi piegare alle violenze
squadriste.
La reazione del nascente regime fascista fu durissima: iniziò
una vera e propria caccia all'uomo e il commissario di polizia
Francesco Cavalieri arrestò molti antifascisti della zona,
accusati di avere organizzato un complotto sovversivo; lo stesso
Cavalieri ammise poi, durante il processo, che gli arresti erano
dovuti a motivi politici e non erano legati all'omicidio. (Vedi
"l'Unità" dell'8
settembre 1925).
Farinacci inviò un telegramma invitando alla vendetta ("posso
assicurarvi che sangue fascista spargentesi in questi giorni sarà
a tempo opportuno vendicato") (Bongiorno) e il 15 settembre le squadracce fasciste
devastarono il circolo "Unione e Progresso" e
la casa dell'operaio comunista Managò, che poi fu anche
arrestato dalla polizia. I fascisti assaltarono anche la casa
del fratello di Leonida Repaci (vedi oltre) dove rubarono oggetti
e denaro, e cercarono di fare irruzione nel carcere di Palmi,
per linciare gli antifascisti arrestati per i fatti della Varia.
Secondo Antonino Bongiorno e Leonida Repaci un detenuto legato
alla mafia, tale Giovanni Campanella, avrebbe sventato l'assalto
fascista, forse per volontà di riscatto personale, dissuadendo
i fascisti, anche grazie a ingenti quantità di armi nascoste
nel carcere. (Bongiorno)
Il giornalista Giuseppe Dato, corrispondente della "Gazzetta
di Messina e delle Calabrie", pur essendo anch'egli fascista,
fu aggredito e gettato in una vasca colma d'acqua, per aver criticato
in una corrispondenza le violenze squadriste.
I fascisti nei giorni seguenti impedirono di fatto l'accesso a
chiunque non fosse a loro gradito, compresi gli avvocati dei detenuti
(Vedi "l'Unità"
del 15 settembre 1925).
Il "processo"
La morte di Gerocarni
fu pregiudizialmente attribuita ai comunisti, l'istruttoria fu
condotta in modo estremamente parziale: molti testimoni che avevano
rilasciato deposizioni a carico degli imputati, ritrattarono,
riferendo di essere stati minacciati dai fascisti e, nell'ottobre
di quell'anno, due di loro si suicidarono, uno dei quali dopo
aver scritto un biglietto in cui attribuiva il proprio suicidio
al rimorso per aver ingiustamente incolpato Leonida Repaci, Giuseppe
Pugliese e Giuseppe Marazzita, ma la corte non tenne conto di
tutto questo.
Alcune delle accuse portate agli antifascisti erano grottesche:
un testimone, tale Giuseppe Vizzari, affermò "di
aver riconosciuto i fratelli Bongiorno, Carbone e Marazzita dalle
fiammelle delle loro pistole". Anche la vittima, Rocco
Gerocarni figurava tra i testimoni: pur essendo moribondo avrebbe
indicato i nomi di ben cinque sparatori, tutti comunisti, tra
i quali Rocco Pugliese. Risultò poi che avrebbe solo fatto
un cenno con la testa quando veniva nominato uno di loro, forse
aiutato da chi gli reggeva la testa con la mano. (Bongiorno)
Il 5 dicembre 1925 il Procuratore Generale presso la Corte d'Appello
di Catanzaro Barone Ferrara chiese il rinvio a giudizio di trentuno
persone per correità in omicidio premeditato e mancato
omicidio premeditato. La sezione d'accusa della Corte d'Appello
di Catanzaro il 29 marzo 1926 rinviò a giudizio quindici
persone presso la Corte di Assise di Palmi, mentre le altre furono
prosciolte con formula piena o per insufficienza di prove, come
nel caso di Leonida Repaci (Vedi "l'Unità"
del 3 aprile 1926).
Il processo iniziò il 26 ottobre 1926 alle 9:30 presso
la Corte d'Assise di Nicastro, dove era stato trasferito per legittima
suspicione. Con un sopruso che anticipava la futura gestione della
giustizia da parte del regime fascista, tre degli avvocati difensori
designati dagli imputati comunisti, Francesco Lo Sardo, Fausto
Gullo, Ezio Riboldi, tutti deputati (Bongiorno) furono arrestati ed inviati al confino,
mentre alla difesa rimase il solo Nicola Zupo; il processo fu
poi sospeso il 30 novembre 1926 perché il Procuratore Generale
chiese il rinvio a giudizio di quattro testimoni che avevano ritrattato
le loro deposizioni accusatorie.
In seguito all'attentato a Mussolini del quindicenne Anteo
Zamboni, con le leggi eccezionali del 26 novembre 1926 fu
istituito il tribunale speciale per
la difesa dello Stato. Il nome di "tribunale" era
del tutto ingiustificato, visto che esso era costituito non da
giudici, ma da attivisti del partito fascista, e in particolare
da consoli della MVSN (Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale).
Il 12 marzo 1928 la Corte di Cassazione dichiarò con sentenza
che il processo doveva essere assegnato al tribunale speciale,
presso il quale il 27 novembre dello stesso anno iniziò
il dibattimento. I quindici imputati antifascisti avevano trascorso
più di tre anni in carcerazione preventiva, ed erano imputati
di "omicidio, tentato omicidio, atti tendenti a suscitare
la guerra civile, insurrezione contro i poteri dello Stato".
Tra gli imputati c'era Rocco Pugliese che davanti alla corte tenne
un comportamento tutt'altro che remissivo, in coerenza con la
sua intransigenza nella lotta antifascista. Il Pubblico Ministero
Isgrò definì gli imputati come "il gruppo
di comunisti che, con a capo Rocco Pugliese, nella piazza di Palmi,
la sera del 30 agosto, hanno sparato" (Bongiorno) e per Rocco Pugliese chiese l'ergastolo,
per altri otto imputati la pena proposta fu di 30 anni, mentre
la pena più "leggera" richiesta fu di 12 anni
e per un solo imputato fu chiesta l'assoluzione per insufficienza
di prove. La pena di morte era stata abolita in Italia nel 1889
(di fatto dal 1877) e fu ripristinata dal regime fascista nel
1930.
Il 5 dicembre 1928, alle 20:30, a soli otto giorni dall'inizio
del processo, il tribunale (Presidente Antonino
Tringali Casanuova, relatore Presti), emise la Sentenza n.
145, che comminava durissime condanne: la più pesante,
di 24 anni e 7 mesi, toccò proprio a Rocco Pugliese, mentre
Natale Borgese e Vincenzo Pugliese ebbero 10 anni e 8 mesi, Giuseppe
Florio e Gregorio Grasso 10 anni e 7 mesi, Giuseppe e Antonino
Bongiorno 8 anni e 7 mesi. Quest'ultimo fu di nuovo processato
dal Tribunale speciale nel 1935, per organizzazione e partecipazione
al Partito Comunista, ed ebbe una ulteriore condanna a 12 anni.
La condanna a Rocco fu la più dura emessa dal tribunale
speciale fino a quel momento, fatta eccezione per quelle a carico
di Gino Lucetti e Tito Zaniboni, che avevano tentato di uccidere
il duce. (Bongiorno)
Gli altri sei antifascisti furono assolti, tra di essi Francesco
Carbone, Antonio Sambiase, Giuseppe Pugliese, Pasquale Carella
e Giuseppe de Salvo, oltre all'avvocato socialista Giuseppe Marazzita,
futuro senatore della Repubblica, che però fu poi ripetutamente
incarcerato nei restanti anni della dittatura fascista.
Va poi ricordato che Fortunato, il fratello maggiore di Rocco,
nato il 7 maggio 1891, di professone cocchiere, sposato e con
otto figli, fu arrestato il 30 novembre 1926 per aver manifestato
solidarietà a Rocco, fu assegnato al confino a Lampedusa
e poi ad Ustica. Nonostante la morte di una figlia e nonostante
si fosse ammalato di un tracoma secernente che lo rese quasi cieco,
fu mantenuto in detenzione e liberato solo nel marzo 1929.
Il caso
Repaci
Un altro antifascista
di Palmi coinvolto nei fatti della Varia fu Leonida
Rèpaci (1898-1985), scrittore e in seguito anche pittore,
ideatore del Premio Viareggio e anch'egli avvocato che, secondo
Francesco Spezzano, senatore del PCI nel dopoguerra, era il vero
bersaglio, insieme a Rocco Pugliese, della spedizione punitiva
della squadraccia fascista.
Repaci fu incarcerato ma, come visto, fu poi prosciolto in istruttoria
e non venne deferito al Tribunale speciale. Il suo proscioglimento,
insieme a quello di altri imputati, fu attribuito a interventi
"eccellenti", nel caso di Repaci a quello di Arnaldo
Mussolini, fratello del duce, oltre che al collegio di difesa
costituito da pezzi grossi del regime. In ogni caso Repaci beneficiò
di numerose testimonianze di personalità ben accette al
regime fascista. Suo fratello maggiore Gaetano era poi il medico
curante di Mussolini.
Mentre era in carcere Repaci scrisse "In fondo al pozzo",
un romanzo con molti riferimenti autobiografici, anche alla vicenda
della Varia del 1925.
Repaci comunque, dopo poco più di un mese dal proscioglimento,
diede le proprie dimissioni dal Partito Comunista con una lettera, pubblicata dall'Unità
il 6 maggio 1926 in cui rivendicava una propria posizione defilata
e collaterale a quella del PCdI e annunciava il proprio ripiegamento
nel privato. Repaci scriveva. "Gli ultimi dolorosi avvenimenti
di Palmi (...) mi costringono, per le necessità della vita
che bisogna purtroppo vivere tutti i giorni, per quel minimo di
pace che io debbo al mio spirito turbato e sopratutto per una
promessa resa a mia madre davanti al suo letto di dolore, a chiedervi
intera libertà di azione nei confronti del Partito nelle
cui file io tenni sempre un posto di solitario e di artista. (...)
oggi, mentre abbandono le vostre file per rifugiarmi totalmente
in me stesso ed attendere alla mia arte, accogliete cari amici
il mio saluto commosso".
Alla lettera di Repaci l'Unità rispose
lo stesso giorno in modo molto polemico, con un articolo non firmato,
ma attribuito ad Antonio Gramsci, contrapponendo
il chiamarsi fuori di Repaci alle sofferenze dei detenuti politici
comunisti che non rinnegavano le proprie scelte politiche. L'Unità
scriveva "Ahimé non è facile, per un intellettuale
piccolo-borghese, passare attraverso il fuoco dell'ideologia operaia
e della disciplina comunista!" e sulla lettera: "Gli
operai la leggeranno con interesse, ma non dovranno rattristarsene
oltre al limite segnato dalla considerazione di un uomo che non
ha avuto il coraggio di seguirli nella via difficilissima della
lotta di classe". Sembra che la replica abbia fatto infuriare
Repaci, che avrebbe minacciato di sfidare a duello Gramsci, che
avrebbe risposto di accettare il duello, ma adottando come arma
delle patate. (Bongiorno)
La polemica proseguì anche nel 1944, dopo la liberazione
di Roma, tra "l'Unità" e il quotidiano
reazionario "Il Tempo". Su "l'Unità"
il direttore Celeste Negarville e
Lucio Lombardo Radice ricordarono
a Repaci il modo in cui era stato prosciolto dal tribunale speciale
fascista, per intervento del regime, e Repaci si difese su "Il
Tempo" con violenti insulti, cercando di far passare
gli attacchi contro di lui come aggressioni alla libertà
di stampa. (Bongiorno)
A questo punto "l'Unità" pubblicò
una lettera di Antonino e Giuseppe Bongiorno che riportava molti
fatti che confermavano gli interventi in suo favore da parte di
pezzi da novanta del regime. All'inizio Repaci ne nego l'autenticità,
affermando che i fratelli Bongiorno non potevano essere a Roma,
e anzi gli risultava che fossero morti. Quando però i due
fratelli gli resero visita presso il suo giornale, Repaci lasciò
cadere la polemica, e pubblicò una brevissima presa d'atto
della visita dei Bongiorno. (Bongiorno)
L'assassinio
Rocco Pugliese fu
rinchiuso il 19 gennaio 1929 nel penitenziario di Santo Stefano
(vedi la mia pagina) che era usato
dal regime fascista per deportarvi gli oppositori più pericolosi,
nell'intento di piegarne la volontà con le durissime condizioni
di detenzione. Ai detenuti politici condannati dal tribunale speciale
era riservato un trattamento particolarmente duro, con l'isolamento
dai prigionieri comuni, per evitare che il loro carisma potesse
far presa su di essi. Erano anche sottoposti ad una sorveglianza
più stringente, sollecitata ai secondini da un cartello
affisso alle porte delle loro celle, che ammoniva: "detenuto
pericoloso da sorvegliare attentamente".
Rocco era rinchiuso nella IV sezione, quella degli "incorreggibili"
creata a titolo sperimentale, detta "teratocomio", ossia
ricovero dei mostri, riservata ai detenuti politici più
pericolosi per il fascismo. (Bongiorno)
A Santo Stefano Rocco mantenne la sua condotta fiera ("un
esempio di resistenza e di fierezza", secondo Vico Faggi),
e rifiutò di sottomettersi alla macchina carceraria fascista,
che gliela fece pagare, dapprima con angherie e sevizie continue,
e infine con la morte, avvenuta il 17 ottobre 1930.
Secondo la versione ufficiale Pugliese si suicidò impiccandosi,
mentre un'altra versione, poco credibile, sostiene che morì
soffocato mentre due secondini, cercavano di alimentarlo forzatamente
con una sonda, legato al letto di contenzione. L'alimentazione
forzata sarebbe stata decisa in seguito a un supposto sciopero
della fame di Rocco.
In realtà varie fonti credibili sostengono che Pugliese
fu strangolato oppure ammazzato di botte dai secondini: secondo
Francesco Spezzano "dopo avergli buttato sulla testa una
coperta (...) lo uccisero a bastonate" e ancora "le
sue grida disperate furono udite a lungo dai compagni di pena
(...) che, chiusi nelle altre celle, nulla poterono fare per aiutarlo"
e poi "l'emozione per il barbaro assassinio fu enorme
fra i detenuti che fecero poi una colletta per mandare al suo
funerale una corona di fiori".
Il trattamento sopra descritto era chiamato dalle guardie il "Sant'Antonio",
con una voce derivata dal gergo dei camorristi: consisteva nell'irrompere
all'improvviso nella cella, coprire la vittima con una coperta,
e poi colpirla duramente a calci, pugni, bastonate o con le grosse
chiavi delle celle. La coperta serviva per non far riconoscere
gli aggressori, per soffocare le grida della vittima e impedirgli
di reagire, e anche per non lasciare segni sul corpo del bersaglio
del pestaggio, che potessero testimoniare l'aggressione. Secondo
l'anarchico ligure Giuseppe Mariani, già detenuto a Santo
Stefano, in quel penitenziario durante i pestaggi non si usava
nemmeno la coperta, visto che le guardie, certe dell'impunità,
non ritenevano di dover prendere alcuna precauzione.
Secondo Mariani il "Santantonio" contro Rocco sarebbe
stato eseguito dal capoposto Barbara e dal guardiano dell'infermeria
Giacobbo, su ordine del capoguardia Luigi Porta, nell'indifferenza
del direttore del penitenziario Russo, che era presente.
Il detenuto comunista Giovanni Pianezza, compagno di cella di
Rocco, ottenne di poterne vegliare la salma in camera mortuaria,
dichiarando di esserne il cugino. In un attimo di disattenzione
delle guardie riuscì a sollevare il lenzuolo che copriva
il corpo e vide che il volto era livido, come per una morte per
asfissia. Sorpreso dalle guardie, fu minacciato di fare la stessa
fine di Rocco, se avesse parlato, e fu immediatamente trasferito.
Il socialista Sandro
Pertini, detenuto a Santo Stefano dal 1929 al 1930, molti
anni dopo, nel 1947, eletto deputato dell'Assemblea Costituente,
ricordò in un intervento in aula che "Rocco Pugliese
venne soppresso all'ergastolo di Santo Stefano quando io ero lì,
al letto di forza".
L'intervento di Pertini era una replica alla risposta del ministro
di Grazia e Giustizia Giuseppe Grassi a una sua interrogazione
riguardante il pestaggio da parte degli agenti di custodia di
alcuni detenuti del carcere di Poggioreale a Napoli, a cui era
seguita la morte di uno di essi.
Pertini fu molto chiaro: " ... parlo per esperienza personale
(...) . In carcere, onorevole Ministro, si fa questo: si percuote
un detenuto; sotto le percosse il detenuto muore, ed allora tutti
si preoccupano e si preoccupano non soltanto gli agenti di custodia
che hanno percosso il detenuto, ma anche il direttore, il medico,
il cappellano e tutti coloro che fanno parte del personale di
custodia. Ed allora fanno questo: denudano il detenuto, lo legano
all'inferriata e lo fanno trovare così appeso. Viene il
medico e fa il referto di morte per suicidio. Questa fu la fine
di Bresci. Bresci è stato percosso a morte, poi hanno appeso
il cadavere all'inferriata della sua cella di Santo Stefano, dove
io sono stato un anno e mezzo".
Pertini si riferiva alla morte di Gaetano
Bresci (vedi la mia pagina su di
lui), l'anarchico pratese condannato all'ergastolo per l'uccisione
del re Umberto I, ma morto nel 1901, dopo pochi mesi dal trasferimento
a Santo Stefano.
Ugoberto Alfassio Grimaldi, citando testimonianze di detenuti
politici, scrive di Bresci: "Quel 22 maggio tre guardie
gli avevano fatto il Santantonio: cioè coperte
e lenzuola addosso e poi bastonate fino alla fine; i resti erano
stati seppelliti, in luogo rimasto senza traccia negli archivi
di S. Stefano, da due ergastolani mandati appositamente da unaltra
casa di pena e ricondotti subito via; il comandante dellergastolo
era stato promosso e le tre guardie premiate".
Il comunista Girolamo Li Causi
, in seguito senatore della Repubblica, scrisse nella sua autobiografia
: "La notizia che proprio Pugliesi era morto mi provocò
un grandissimo dolore. Il nostro compagno sofferente per i maltrattamenti
e soprusi cui era sottoposto, aveva deciso di fare lo sciopero
della fame : nel tentativo di fargli ingurgitare a forza del cibo
la custodia riuscì soltanto a strozzarlo. Era un grande
combattente, pieno di vitalità e di spirito di sacrificio;
un altro compagno che se ne andava ...".
Ancora Pertini, in una testimonianza riportata nel libro a cura
di Vico Faggi, racconta: "Una notte fui svegliato da un
grido soffocato «mamma, mamma!». L'indomani fu sparsa
la voce che Rocco Pugliese si era impiccato; ma il suicidio non
era che una messa in scena. Pugliese era stato ucciso dai carcerieri."
Nella stessa opera si ricorda che l'assassinio dei detenuti politici
nelle carceri fasciste non era un caso isolato, come testimoniano
i casi di Gastone Sozzi nel carcere
di Perugia e di Romolo Tranquilli,
il fratello di Ignazio Silone, nel carcere di Procida. L'edizione
clandestina dell'Unità
del 1° gennaio 1929 riporta i nomi di detenuti comunisti morti
o comunque sofferenti nelle carceri fasciste.
La morte di Rocco fu subito identificata come assassinio e la
notizia giunse agli ambienti antifascisti in Italia e in esilio.
Il quotidiano del partito comunista francese "L'Humanité"
pubblicò il 21 dicembre 1930 un articolo
di Gabriel Péri,
futuro deputato comunista e futura vittima dei nazisti, dal titolo:
"Comment périrent à San Stefano les communistes
Castellano et Pugliesi" (Pugliese L.) che denunciava la morte dei due detenuti
comunisti Castellano e Rocco Pugliese (erroneamente indicato come
"Pugliesi"), e le gravi condizioni del militante comunista
Emmanuelli e di Sandro Pertini, ammalato di tubercolosi. L'articolo
attribuiva la morte di Rocco ad una vendetta delle guardie per
aver rifiutato le loro proposte sessuali, dando invece l'allarme
a gran voce. In seguito Rocco sarebbe stato vessato dandogli del
cibo immangiabile, che avrebbe rifiutato, scatenando la segregazione
a digiuno al "letto di forza" e la successiva morte.
L'articolo di Péri e la diffusione alla notizia data dai
fuoriusciti antifascisti mise in imbarazzo il regime fascista,
e Mussolini mise in piedi una farsesca commissione d'inchiesta
sulle condizioni dei reclusi nelle carceri, presieduta dal Sostituto
Procuratore Generale Claudio Rizzo, che già il 19 gennaio
concluse i suoi lavori scrivendo che "ai principi dello
scorso ottobre (...), insieme ad un più notevole stato
di deperimento organico, cominciò a manifestarsi nel Pugliese
una vera e propria forma di psicopatia, estrinsecatasi in eccessi
violenti ed in un caratteristico delirio di persecuzione, che
lo spingeva a ritenere avvelenato qualunque cibo, e a rifiutarne,
quindi, l'ingestione (...). Il 12 ottobre, fu ricoverato in infermiera,
con diagnosi di strofobia, mania di persecuzione, catarro apicale,
T.b.c. e nevrosi cardiaca, e, per prescrizione del medico, dovette
essere assicurato al letto di forza e assoggettato alla nutrizione
artificiale". Il giorno 15 ottobre, secondo la relazione,
il direttore del penitenziario propose il trasferimento di Rocco
presso il manicomio giudiziario di Napoli, il che non poté
avvenire perché "il detenuto decedeva, per paralisi
cardiaca, nel pomeriggio del giorno 17". (Bongiorno). La commissione, come prevedibile,
non diede risultati, se non un temporanea attenuazione della bestialità
del trattamento carcerario.
La famiglia di Rocco apprese della sua morte quasi per caso e
la salma non fu mai restituita. (Cordova, 1965) La
questura di Reggio Calabria prese misure per evitare che i funerali
di Rocco generassero manifestazioni contro il regime e diede disposizioni
perché le esequie "non abbiano luogo in forma pubblica
e che la salma sia trasportata nottetempo dallo scalo ferroviario
di Palmi al cimitero", ma in effetti il corpo di Rocco
non arrivò mai a Palmi e fu probabilmente distrutto già
a Santo Stefano (Bongiorno,
Pugliese L.), come
probabilmente accadde per quello di Gaetano Bresci.
Un'opera
teatrale e sei libri
La compagnia Teatridelsud
di Palmi ha messo in scena "LArrobbafumu"
uno spettacolo di Francesco Suriano, interpretato da Peppino
Mazzotta, tratto dal libro dello
stesso autore, che prende spunto dai fatti di Palmi per raccontare
la Calabria e il suo ritardo di sviluppo.
Lo scrittore calabrese Domenico Gangemi
ha pubblicato nel 2004 un romanzo liberamente tratto dalle vicende
della Varia del 1925 dal titolo "'25
nero", pubblicato da Pellegrini Editore. Inoltre
Natale Pace, assessore centrista ed ex vicesindaco di Palmi, nel
suo saggio "Il debito", pubblicato nel 2006 per Laruffa
Editore, racconta la vicenda di Rocco dal punto di vista di Leonida
Repaci, amico personale dell'autore.
Nel 2008 Giuseppe (Pino) Bongiorno,
figlio di Antonino, ha pubblicato per l'Albatros di Roma il libro
"Una vita da comunista",
dedicato alla vita di suo padre, che dà ampio spazio alle
vicende della Varia del 1925 e alle vicende processuali di suo
padre, di Rocco e di tutti gli altri imputati.
Nel 2015 Annales di Roma ha pubblicato "Rocco Pugliese:
un Comunista di Calabria" il bel libro di Lorenzo
Pugliese, familiare di Rocco, che riporta con passione e coinvolgimento
il risultato di 18 anni di ricerche dell'autore presso archivi,
giornali, biblioteche e racconti di testimoni. Il libro adempie
in pieno l'auspicio di Sandro Pertini, espresso ad una nipote
di Rocco, perché il sacrificio del giovane di Palmi non
fosse dimenticato.
Nel 2017 il giornalista Pier Vittorio
Buffa ha pubblicato per Nutrimenti di Roma il libro "Non volevo morire così",
che racconta le storie di carcerati di Santo Stefano e di confinati
di Ventotene, raccolte in gran parte dai loro fascicoli conservati
negli archivi, tra i quali quelli di Santo Stefano. Un capitolo
è dedicato a Rocco Pugliese.
La città di Palmi ha intitolato una via
a Rocco Pugliese e il 25 aprile 2018 ha posto una lapide
in viale Rimembranze, 20, nel luogo in cui sorgeva la sua casa
:
Qui sorgeva la casa natia
ad imperitura memoria
Rocco Pugliese 1903-1930
Comunista palmese con altri giovani antifascisti fonda a Palmi
la sezione del Partito Comunista d'Italia
condannato innocente dal Tribunale speciale per i fatti
della Varia del 30 agosto 1925 ucciso dalla ferocia fascista
nel penitenziario di Santo Stefano
Una notte fui svegliato da un grido soffocato mamma
mamma l'indomani fu sparsa la voce che Rocco Pugliese si
era impiccato; ma il suicidio non era che una messa in scena.
Pugliese era stato ucciso dai carcerieri.
Sandro Pertini
LA CITTÀ POSE
Palmi 25 aprile 2018
Rocco
Pugliese oggi
Nonostante la segregazione,
l'assassinio e l'occultamento del cadavere, sebbene siano passati
oltre novant'anni dalla morte e forse nessuna delle persone che
ha conosciuto Rocco è più in vita, quel ragazzo
calabrese di 27 anni è ancora vivo nella memoria, il suo
sacrificio genera ancora riconoscenza ed il suo brutale assassinio
ispira tuttora orrore ed indignazione.
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