Lo schiaffo di Anagni

L'incidente denominato "schiaffo di Anagni" avvenne tra il 7 ed il 9 settembre 1303, e vide la cattura e l'imprigionamento del papa Bonifacio VIII nel suo palazzo di Anagni, cittadina a circa 65 km a sud di Roma, oggi in provincia di Frosinone, ad opera degli emissari del re di Francia Filippo IV, detto "Filippo il Bello" (1268-1314), con l'aiuto dei membri di alcune famiglie nobili romane, prima fra tutte i Colonna.
I fatti si inquadrano nel duro contrasto di poteri a cavallo tra il duecento ed il trecento tra il re di Francia ed il capo della Chiesa di Roma, entrambi dotati di personalità particolarmente forti, ambiziosi e decisi a difendere con ogni mezzo l'istituzione che guidavano. Bonifacio tentò di difendere la superiorità spirituale del papato contro l'incombente imperialismo della Francia, ma nonostante la sua grande abilità politica e diplomatica, la contesa divenne presto uno scontro aperto e lo strapotere militare dei francesi ebbe il sopravvento, culminando proprio con l'incidente di Anagni, determinando la fine di Bonifacio ed il trasferimento temporaneo del papato ad Avignone.

Benedetto Caetani
Il pontefice, al secolo Benedetto Caetani era nato tra il 1230 ed il 1235 ad Anagni, città di altri tre papi (Innocenzo III, Gregorio IX e Alessandro IV), dove risiedette a lungo, anche dopo l'elezione al papato. I suoi genitori, il padre Roffredo e la madre Emilia Giffridi di Guarcino. Secondo alcune fonti la madre era sorella di Leonardo Patrasso, nominato cardinale da Bonifacio stesso nel 1300, ma probabilmente era solo un parente. Roffredo ed Emilia ebbero molti figli, dei quali Benedetto fu l'unico a seguire la carriera ecclesiastica. Seguì studi di diritto canonico a Spoleto ed a Todi, dove suo zio Pietro Caetani era vescovo, e a Bologna, e in seguito ricordò con grande affetto entrambe le città, nelle quali partecipò assiduamente alle lotte politiche cittadine, schierandosi sempre con i ghibellini.
Avvocato concistoriale, nel 1264 accompagnò come segretario il cardinale Simon de Brion, il futuro papa Martino IV, a Parigi, e il cardinale Ottobono Fieschi, futuro papa Adriano V, in Inghilterra nel 1265-1267. Fu protonotario apostolico dal 1276 e intervenne nei negoziati del cardinal Matteo Orsini con Rodolfo I d'Asburgo e Carlo d'Angiò nel 1280
(Miranda).
Il 12 aprile 1281 papa Martino IV lo creò cardinale diacono, con il titolo di San Nicola in Carcere Tulliano, e divenne un diplomatico molto apprezzato dalla Curia di Roma, Benedetto fu invece ordinato sacerdote solo il 22 settembre 1291, intorno ai sessant'anni di età, e tre anni prima dell'elezione a papa, quando fu anche ordinato vescovo, e ottenne il titolo presbiteriale dei Ss. Silvestro e Martino ai Monti
(Miranda).
Caetani era molto stimato come diplomatico, tanto che papa Martino IV lo definì "uomo di profondo giudizio, affidabile, di grande lungimiranza, solerzia e circospezione"
(Paravicini Bagliani, 2003) e gli vennero affidate diverse missioni diplomatiche, a Londra, in Danimarca, in Francia ed in varie località d'Italia. Fu legato in Sicilia e in Portogallo, e compose dissidi tra il re di Sicilia e Alfonso d’Aragona e tra Filippo il Bello e il re d’Inghilterra Edoardo I (Vaccolini). Lo storico coevo Ferretto Vicentino lo definisce "prudens et astutus" (II, 63,24).
Nel novembre 1290 a Parigi Benedetto Caetani intervenne duramente in una disputa che era stato chiamato ad arbitrare come legato pontificio, prendendo le difese degli ordini religiosi mendicanti contro eminenti vescovi e maestri dell'università di Parigi, che accusò duramente di scarsa dottrina, presunzione e poca intelligenza, proferendo una frase molto indicativa del suo concetto della Chiesa di Roma: "il mondo è stato affidato alla nostra cura, noi dobbiamo preoccuparci non di ciò che può piacere a voi, non di voi sapienti e dei vostri capricci, ma di ciò che è utile a tutto l'universo". Durante questa missione Benedetto conobbe Filippo il Bello, con il quale si creò un rapporto di stima e rispetto reciproci. Caetani era definito all'epoca "gallicus", cioè era considerato amico dei francesi, quelli della madrepatria, ma anche degli Angioini che regnavano a Napoli, tanto da essere rimproverato per questo dai propri fratelli, come raccontò lui stesso.
Nel corso della sua carriera di prelato, come era in uso all'epoca, poté accumulare notevoli ricchezze, provenienti dalle prebende a cui aveva diritto per le sue cariche religiose, e dai doni ricevuti per interessamento in pratiche o mediazioni. Questi redditi misero in grado la sua famiglia di accumulare potere e possedimenti nel Lazio centro-meridionale, sia per mezzo dell'ingente quantità di denaro di cui era in possesso, sia per l'azione di persuasione minacciosa che era in grado di esercitare.
Bonifacio ebbe un'attenzione molto particolare per la propria immagine, inusuale per l'epoca: commissionò propri ritratti a grandi artisti o ne sollecitò l'esecuzione, tra questi quello contenuto nell'affresco della basilica romana di San Giovanni in Laterano, attribuito a Giotto, rappresentante l'indizione da parte sua del Giubileo del 1300, le opere di Arnolfo di Cambio del museo dell'Opera del Duomo a Firenze la statua (1290) ed il busto (1298, vedi il calco del palazzo di Anagni), le due statue di Orvieto (1297), una di Ramo di Paganello e l'altra forse di Rubeus, quella di Bologna di Manno di Bandino (1300) e quella di autore ignoto sul fianco sinistro della cattedrale di Anagni, che secondo Fedele
(1921b) sarebbe stata eretta dagli abitanti di Anagni dopo la sua morte, per espiare la loro partecipazione all'aggressione. Prima di lui non era usanza effigiare i papi in statue, con l'eccezione di Niccolò III (1216-1280), al quale la città di Ancona aveva dedicato una statua per riconoscenza. Altri possibili ritratti di Bonifacio sono inseriti in elementi architettonici, come quello attribuito ad Arnolfo di Cambio. Questa abbondanza iconografica dopo la morte gli valse addirittura l'accusa di essersi fatto idolatrare.
Bonifacio avrebbe spiegato al suo medico Arnaldo da Villanova questa sua cura per l'immagine, motivandola con il desiderio di accrescere la gloria della Chiesa di Roma e di perpetuare il ricordo di sé stesso nei secoli. "abbiamo ingrandito la gloria della Chiesa di Roma tra tanto oro e tanto argento, e davanti a questi e a quelli, e per questo motivo il nostro ricordo resterà glorioso nei secoli dei secoli" ("Nos auximus gloriam ecclesie Romane in tanto auro et in tanto argento et in hiis et in illi, et ideo nostra memoria erit in seculum seculi gloriosa")
(Fedele, 1921b).

L'elezione a papa
Il 24 dicembre 1294 nel secondo giorno e terzo scrutinio del conclave di Napoli, tenutosi nel Castel Nuovo dopo la rinuncia al trono di Celestino V, che era stato pontefice per 107 giorni, Benedetto Caetani fu eletto papa (vedi lo stemma) e, pur non raggiungendo l'unanimità, ebbe l'appoggio di una vasta maggioranza di cardinali, compresi i due componenti della famiglia Colonna, Giacomo e Pietro (zio e nipote), che sarebbero poi divenuti suoi acerrimi nemici. La sua elezione fu vista con favore da tutti i potenti europei, compreso Filippo il Bello, che gli inviò doni particolarmente ricchi. Dopo l’elezione al papato, il 1° o il 2 gennaio 1295 Bonifacio venne a Roma per farsi incoronare e riportò la sede papale da Napoli a Roma, anche se spesso si sarebbe trasferito ad Anagni, specie d'estate, per sfuggire al calore romano, ma soprattutto alla malaria
(Giammaria, 1983). Vaccolini riferisce di un’incoronazione di sfarzo mai visto, con il papa che nella processione da San Pietro a San Giovanni in Laterano cavalcava un destriero bianco, servito nel salire in sella dai re Carlo di Sicilia e Carlo Martello d’Ungheria, che gli tenevano le briglie.
Il 22 febbraio 1300 Bonifacio istituì il primo giubileo, che prevedeva l'indulgenza plenaria per chi visitasse le basiliche di San Pietro e di San Paolo. L'Anno santo fu forse indetto a seguito dell'afflusso spontaneo di pellegrini, attirati a Roma dalle voci di un indulgenza plenaria in occasione dell'inizio del secolo
(Giammaria, 1983), ma secondo altri, forse influenzati da situazioni contemporanee, Bonifacio ideò l'Anno santo spinto dalla brama di guadagni. In ogni caso il Giubileo vide l'afflusso a Roma di un numero imprevisto di pellegrini: secondo Giovanni Villani (IX, 36), che era presente, furono 200.000, senza contare quelli di passaggio. A causa della calca di pellegrini sul ponte Sant'Angelo furono istituite due corsie di marcia separate nei due sensi per i pedoni, citate anche da Dante Alighieri nella Divina Commedia (Inferno, XVIII, 28-33).
Il 6 giugno 1303, con la bolla "Supremae praeminentia Dignitatis" fondò lo "Studium Urbis", la prima Università romana, che poi divenne nota come "la Sapienza". Bonifacio istituì anche altre università, quella di Pamiers (18 dicembre 1295) usata soprattutto come strumento politico contro Filippo il Bello
(Théry), quella di Fermo (16 gennaio 1303) e quella di Avignone (1° luglio 1303).

Celestino V nel suo breve pontificato aveva concesso nomine, privilegi e rendite a molti postulanti, ed adulatori spesso anche indegni, ma al momento di abdicare, rendendosi conto del danno compiuto, aveva chiesto al suo successore Bonifacio di revocarli. Il nuovo papa in breve tempo cancellò molte nomine e privilegi accordati dal suo predecessore, danneggiando in particolare diversi membri della famiglia Colonna, il che creò ulteriori attriti e rancori tra le due famiglie.
Inoltre, dopo l'elezione al soglio pontificio, Bonifacio VIII concesse ai Caetani ulteriore potere, abusando nel nepotismo che pure era una pratica molto diffusa all'epoca: infatti Bonifacio nominò cardinali tre suoi nipoti, Benedetto e Francesco Caetani, figli di due suoi fratelli e Giacomo Caetani Tommasini (insieme con lui nella lunetta di tabernacolo attribuita ad Arnolfo di Cambio), figlio di sua sorella, tutti molto giovani (Benedetto aveva probabilmente diciotto anni). Il nepotismo viene considerato oggi uno dei suoi principali errori come papa, al di là delle invettive e delle calunnie diffuse da chi aveva motivi di risentimento contro di lui, come Filippo il Bello, Dante Alighieri e Jacopone da Todi
(1236-1306) che aveva definito Bonifacio VIII "Lucifero novello" (83: 51).

Il carattere di Bonifacio
Giovanni Villani lo defini così: "molto fu magnanimo e signorile, e volle molto onore, e seppe bene mantenere e avanzare le ragioni della Chiesa, e per lo suo savere e podere molto fu ridottato e temuto; pecunioso fu molto per agrandire la Chiesa e' suoi parenti, non faccendo coscienza di guadagno, che tutto dicea gli era licito quello ch'era della Chiesa"
(IX: 6). In diverse occasioni Benedetto Caetani diede comunque prova di avere un carattere difficile, eccessivamente impulsivo, irascibile, rancoroso e permaloso; nella sua corte era noto che detestasse essere contraddetto e che, quando ciò accadeva, reagisse con molta veemenza.
Negli Annales Genuenses di Giorgio e Giovanni Stella è riportato un episodio accaduto un mercoledì delle Ceneri: l'arcivescovo di Genova Porchetto Spinola (m. 1321), dell'Ordine dei Frati Minori, nominato nel 1299 dallo stesso Bonifacio, trovandosi a Roma chiese al papa l'imposizione delle Ceneri. Bonifacio, invece di porre le ceneri sul capo di Spinola, gliele avrebbe gettate negli occhi, pronunciando una versione parodistica della formula di rito: “Ricordati che sei Ghibellino e con i Ghibellini tornerai ad essere cenere”. Bonifacio avrebbe addirittura tolto a Spinola la dignità episcopale, credendo che avesse dato ospitalità ai suoi acerrimi nemici, i cardinali Colonna
(Paravicini Bagliani, 1994), oppure Spinola si sarebbe dimesso su pressione del papa, non convinto della sua affidabilità sulle questioni politiche in gioco (Bezzina).
L'irritabilità di Benedetto Caetani potrebbe derivare anche dai suoi problemi fisici, e in particolare dai calcoli renali di cui soffriva. Il papa era in cura dal medico e alchimista catalano Arnaldo da Villanova (Arnau de Vilanova,
1240-1313) che era anche il medico di re Giacomo II d'Aragona e docente all'Università di Montpellier e alla Scuola Medica Salernitana (Frale). Alla fine del luglio 1301 Arnaldo si sarebbe rinchiuso nella chiesetta di San Nicola, sopra il paese di Sgurgola, di fronte ad Anagni, per mettere a punto un sigillo astrologico d'oro, racchiuso in un cinto di cuoio, per curare il pontefice. Sembra che la cura avesse fatto effetto, forse per un semplice effetto meccanico sui reni del cinto di cuoio, procurando all'alchimista una lauta ricompensa da parte del papa e molte invidie e risentimenti nella corte papale. Bonifacio si riforniva anche di acqua alla fonte che oggi porta il suo nome a Fiuggi (allora denominata Anticoli), a circa 20 km da Anagni. Forse la miniatura su pergamena che ritrae un papa che riceve un elisir, mentre una volpe cerca di rubargli la tiara si riferisce a Bonifacio, anche se l'opera di Girolamo da Cremona è stata eseguita oltre un secolo e mezzo dopo la sua morte.

La rivalità con i Colonna
Come visto nei paragrafi precedenti, tra le famiglie Colonna e Caetani si creò una profonda rivalità, dovuta soprattutto alla vicinanza dei loro rispettivi feudi a sud di Roma. I Caetani erano in rapida ascesa, grazie soprattutto all'elezione al soglio pontificio di Bonifacio VIII. Tuttavia i due membri Colonna del collegio cardinalizio, dopo aver sostenuto l'elezione di Benedetto Caetani, avevano anche collaborato con lui in buon accordo nei primi due anni di pontificato. A rompere l'armonia fu la continua espansione dei Caetani e la reazione dei Colonna, che si concretizzò nel fatto accaduto il 3 maggio 1297 sulla via Appia, presso la tomba di Cecilia Metella, trasformata in fortezza con il nome di Capo di Bove (a causa dei bucrani che tuttora la ornano). Pietro II Caetani, nipote del papa, stava trasportando da Roma ad Anagni parte del tesoro dello zio, donato in occasione dell'elezione al pontificato da sovrani e principi europei, pari a 200.000 fiorini d'oro, contenuti in ottanta sacchi trasportati a dorso di mulo. Il tesoro fu rapinato da un gruppo di armati guidato da Stefano Colonna, fratello del cardinale Pietro e nipote di Giacomo, probabilmente anche con lo scopo di impedire ai Caetani di acquistare altre proprietà, incrementando ancora di più il loro potere. Bonifacio VIII infuriato convocò i cardinali Colonna per chiedere loro ragione dell'affronto, ma i due dapprima non si presentarono, poi vennero e ricevettero le condizioni per ottenere il perdono, tra cui la restituzione del tesoro, cosa che avvenne pochi giorni dopo, probabilmente per intervento dei due cardinali Colonna su Stefano.
La guerra tra le famiglie però non si interruppe, il papa fece appello ai romani denunciando il sopruso subito ed omettendo di menzionare l'avvenuta restituzione del tesoro. I Colonna, convocati per dichiarare se riconoscevano la legittimità di Bonifacio come papa, si riunirono invece con un gruppo di persone anche estranee alla famiglia, tra le quali Jacopone da Todi, nel castello di Lunghezza a 20 km da Roma, di proprietà della famiglia amica dei Conti.
Dal castello, il 10 maggio 1297 risposero con un documento violentemente polemico verso il papa, il Manifesto di Lunghezza, affisso sulle porte delle chiese di Roma e sull’altare maggiore di San Pietro, nel quale lo accusavano di governare in modo tirannico, e soprattutto di aver costretto Celestino V a rinunciare al papato: in conseguenza di ciò Bonifacio doveva essere considerato un usurpatore e tutti i suoi atti si dovevano ritenere nulli. Il Manifesto rispondeva così ad un'esplicita richiesta di Bonifacio di essere riconosciuto come papa, affermando: "vos non credimus legitimum papam esse" (non crediamo che siate un papa legittimo)
(Fedele, 1921b).
Di nuovo il papa reagì denunciando l'oltraggio davanti al popolo romano, ma i Colonna diffusero il 16 maggio un nuovo documento, in cui lo accusavano di nuove infamie, tra le quali quella di aver fatto assassinare Celestino V. Anche questa accusa era funzionale al tentativo di delegittimare Bonifacio in quanto papa, ed ebbe molto successo, tanto da essere spesso considerata un fatto acquisito. Le accuse e le rivendicazioni dei Colonna si rifacevano a quelle del movimento degli Spirituali, sostenuto da Celestino V, e fortemente critico verso Bonifacio VIII.
Il papa scomunicò i due cardinali con la bolla "In excelso throno" del 10 maggio 1297, nella quale condannava i Colonna e gli oltraggi della loro “dannata stirpe e del loro dannato sangue”, che “sollevava in ogni tempo il suo capo pieno di superbia e di disprezzo
(Bassetti) e, di conseguenza, meritava addirittura lo sterminio. Pochi giorni più tardi, dopo una risentita replica dei Colonna, Bonifacio promulgò il 23 maggio, giorno dell'Ascensione, la bolla Lapis abscissus, con la quale confermava la scomunica ai due cardinali estendendola ad altri Colonna, Stefano e il principe Giacomo (detto Sciarra per il suo carattere rissoso), entrambi fratelli di Pietro, Agapito e Oddone, oltre che a Jacopone da Todi; inoltre, disponeva la confisca dei beni di famiglia e ordinava a tutti i fedeli di catturarli.
Il 15 giugno i Colonna ribadendo l'illegittimità del papa, fecero appello al popolo per l'indizione di un concilio per eleggere un nuovo papa. Bonifacio rispose mettendo domenicani e francescani, muniti di poteri inquisitoriali, in caccia dei Colonna, giustificando la grave decisione con l'accusa di eresia lanciata loro. Inoltre il papa raccolse armati tra i suoi alleati in molti comuni del centro Italia (tra i quali Siena e Firenze), anche con l'aiuto di banchieri e cardinali, con fondi provenienti da ordini religiosi e cavallereschi, compresi i Templari.
Con tali forze il 21 luglio fece prendere il castello di Colonna, paese da cui prendeva il nome la famiglia, ed attaccare varie altre proprietà dei rivali, tra le quali Nepi, Tivoli, Palestrina, Zagarolo e diverse proprietà dei Colonna a Roma. Dopo un tentativo fallito di mediazione ad opera di un membro della famiglia Savelli, il papa si ritirò ad Orvieto, dove, il 4 settembre 1297 bandì una vera e propria crociata contro i Colonna, assicurando l'indulgenza a chi sarebbe morto combattendo contro di loro. Bonifacio affidò a Teodorico da Orvieto (Theodorico de' Ranieri,
1235-1306), arcivescovo di Pisa, la condotta delle operazioni militari. Nel 1298 il castello ed il borgo di Colonna furono definitivamente distrutti e il papa il 21 giugno pubblicò una bolla che ne proibiva la ricostruzione. Nell'autunno 1298 i due cardinali Colonna vennero a Rieti a implorare misericordia dal papa, che li ricevette munito dei paramenti pontificali e della tiara, come il pontefice stesso raccontò nella bolla del 3 ottobre 1299 (Fedele, 1921a). Il papa assegnò i due cardinali a una sorta di confino, dal quale i due si allontanarono, spostandosi per l'Italia, e poi, portandosi dietro tutto il materiale diffamatorio raccolto contro Bonifacio VIII, rifugiandosi in Francia, .dove si trovavano nel 1303, l'anno dello schiaffo. Nel settembre o ottobre del 1298, a seguito di una tregua non rispettata dai rivali, il papa ordinò a Teodorico da Orvieto, nel frattempo divenuto anche camerlengo, di distruggere interamente Palestrina, appartenente ai Colonna, "perché non vi resti nulla, nemmeno la qualifica o il nome di città". Gli uomini di Bonifacio, guidati da Landolfo Colonna, fratello di Giacomo, insieme ad un contingente di truppe fiorentine, distrussero la città, lasciando in piedi solo la cattedrale, fecero passare l’aratro sulle rovine della città e vi sparsero il sale. Tra i prigionieri catturati a Palestrina vi fu Jacopone da Todi, che fu espulso dall’ordine francescano dei Minori, scomunicato e rinchiuso nei sotterranei del convento francescano di San Fortunato a Todi (Bassetti). Dante, nella Divina Commedia (Inferno, XXVII, 91-111) attribuisce a Bonifacio la colpa di aver indotto Guido da Montefeltro a consigliarlo su come conquistare Palestrina in modo fraudolento, spingendolo alla dannazione eterna. Il pontefice fece ricostruire sulle macerie una nuova cittadina, chiamata Città Papale ("Civitas Papalis") (Fedele, 1921b) della quale il 13 giugno 1299 nominò vescovo lo stesso Teodorico da Orvieto (Bassetti).

Lo scontro con Filippo il Bello
Il contrasto tra il papa ed il re di Francia si esplicitò in un crescendo di atti ostili e ritorsioni reciproche: nel gennaio 1296 Filippo, per finanziare la guerra contro l'Inghilterra, iniziata due anni prima, aveva imposto una tassa straordinaria del 2% sui patrimoni, compresi quelli ecclesiastici, che fino ad allora erano soggetti solo alla tassazione della Curia romana. Bonifacio non poteva accettare questo colpo di mano e il successivo 25 febbraio emise la bolla Clericis laicos, che vietava, pena la scomunica, a tutti gli ecclesiastici, non solo francesi (anche Edoardo I d'Inghilterra aveva tassato gli ecclesiastici), di versare, senza il consenso del papa, qualunque imposta ai sovrani, che a loro volta dovevano chiedere l'autorizzazione del papa per imporre tasse sul clero. La contromossa di Filippo fu la proibizione del trasferimento al di fuori della Francia di beni di lusso e denaro, quindi anche delle imposte destinate a Roma.
La replica del papa fu molto dura, il 20 settembre 1296, con la bolla Ineffabilis amoris, nella quale appare un vero e proprio proclama ideologico, dal sapore profetico: "devi sapere che Noi e i nostri fratelli, se Dio ce ne dà la forza, siamo pronti non solamente a subire la persecuzione, la rovina e l'esilio, ma ancora a sacrificare le nostre vite per la libertà e la franchigia ecclesiastiche"
(Paravicini Bagliani, 2003).
Il conflitto vide poi un momentaneo raffreddamento, grazie a passi distensivi presi da entrambe le parti, tra i quali la canonizzazione, l'11 agosto 1297 a Orvieto, da parte di Bonifacio, del re di Francia Luigi IX, nonno di Filippo il Bello, con il nome di San Luigi dei Francesi. Le ostilità ripresero nel 1301 con il caso di Bernard Saisset, vescovo di Pamiers, cittadina ai piedi dei Pirenei francesi, che da anni era in contrasto di poteri con il signorotto locale, il conte di Foix. Saisset si era rivolto al papa dell'epoca, Niccolo IV, che aveva posto le proprietà dell'abbazia di Saint-Antonin di Pamiers sotto la protezione dell'allora cardinale Benedetto Caetani.
Filippo il Bello intervenne in modo pesante nel settembre 1301 facendo arrestare e processare il vescovo, facoltà riservata alla Chiesa, violandone quindi l'immunità ecclesiastica. L'accusa era gravissima: tradimento del re e crimine di lesa maestà, per aver chiesto il sostegno del papa, non riconoscendo la sovranità del re, e addirittura accusandolo di eresia; il processo simulava modi e termini di quelli ecclesiastici.
Bonifacio alimentò la spirale di ritorsioni con una serie di bolle emesse tra il 4 ed il 6 dicembre 1301: la Secundum divina invitava il re a liberare Saisset per “non offendere la maestà divina”, visto che i laici non avevano potestà sui religiosi; la Salvator mundi, sospendeva i privilegi accordati in passato al re, la Ausculta filii pubblicata il 5 dicembre 1301 ammoniva il re di Francia per aver disobbedito al pontefice
(Théry) e infine la Ante promotionem nostram, convocava a Roma per il 1° novembre 1302 tutte le autorità ecclesiastiche e teologiche di Francia, per un vero e proprio sinodo sulla tutela della libertà ecclesiastica, minacciando di scomunicare il re se avesse impedito ai vescovi francesi di parteciparvi. Nell'insieme il papa creava i presupposti per una profonda ingerenza nelle questioni interne della monarchia francese (Dupré Theseider). Filippo, dopo essersi consultato con i nobili e il clero francese, decise di opporsi al tentativo del papa di imporre la sua sovranità temporale e spirituale sui re cattolici, e diffuse il testo di una bolla papale falsificata, offensiva verso il re e la Francia, per scatenare l'indignazione popolare contro il pontefice.
Bonifacio, constatato che circa metà dei vescovi francesi non avevano raggiunto Roma, emise una scomunica per chiunque aveva impedito ai prelati di raggiungere il concilio ed il 18 novembre 1302 emise la bolla Unam sanctam, con la quale mirava ad imporre la supremazia papale su tutti i sovrani della terra.
Secondo Giovanni Villani e Dino Compagni, Bonifacio cercò di minare il potere di Filippo il Bello favorendo i suoi nemici, i Fiamminghi, che lo avevano sconfitto l'11 luglio 1302 nella battaglia di Courtrai ed i tedeschi, e contrastando i suoi alleati, come gli angioini.

La preparazione dell'assalto
Filippo IV reagì alle bolle papali convocando un concilio contro Bonifacio, che definì "simoniaco ed eretico", accusandolo inoltre di avere evocato dei demoni ed essersi fatto idolatrare, quindi mandò il suo consigliere, il giurista Guillaume de Nogaret (1255-1314) ad Anagni per arrestarlo, Secondo alcuni in realtà tutta l'impresa di Anagni fu un'idea di Nogaret, suggerita a Filippo IV nel febbraio dello stesso 1303. Altri storici manifestano dubbi sul fatto che Filippo abbia ordinato l'attacco, anche se probabilmente sapeva che sarebbe avvenuto. Sembra che il papa avesse pronto il documento di scomunica Super Petri solio, che avrebbe dovuto essere promulgato domenica 8 settembre 1303, il giorno dopo l'assalto, affiggendolo alla porta della cattedrale di Anagni. Per questo il gruppo di Nogaret avrebbe assaltato il palazzo papale di Anagni, distruggendo le copie della bolla (se ne conosce comunque il testo da trascrizioni eseguite probabilmente all'epoca).
Il 7 marzo Nogaret ricevette un messaggio in codice della Cancelleria reale in cui gli si ordinava di "recarsi in quel certo luogo ... e di fare quello che gli sembrava bene di farvi", e il 12 marzo, durante un'assemblea solenne tenuta nei giardini del Louvre, il palazzo reale, il consigliere tenne un discorso in cui attaccava duramente il papa, elencandone le colpe, tra le quali quella di aver costretto Celestino V ad abdicare, e di essere un eretico, e reclamava la convocazione di un concilio generale per esaminare il suo caso, e quindi processarlo.
Nogaret, definito da Nangis soldato e giurista, mise insieme una squadra di 300 uomini
(Villani), o secondo il manoscritto di Vienne (Digard) 1650, di cui 1050 a piedi e 600 a cavallo, composta da francesi ed italiani, appartenenti alle famiglie ostili ai Caetani, e quindi soprattutto ai Colonna, approfittando quindi della rivalità tra le due famiglie, e incentivati dalle dazioni di denaro dei francesi (Giammaria, 2004). Gli uomini di Nogaret avrebbero fatto base presso il castello di Staggia Senese, oggi nel comune di Poggibonsi, di proprietà del mercante fiorentino Musciatto Franzesi, consigliere di Filippo il Bello, che avrebbe provveduto a procurarsi aiuto per la spedizione. Alla spedizione presero parte armati di Anagni e dei paesi vicini, come Alatri, Ferentino e Ceccano, danneggiati dall'espansionismo dei Caetani (Giammaria, 2004). La squadra partì da Roma, ed era guidata da Nogaret, con le insegne del re di Francia, e da Sciarra Colonna. È tradizione che, prima di irrompere all'alba ad Anagni, i congiurati si fossero radunati a Sgurgola (vedi pagina) a circa 10 km da Anagni, dove erano stati arringati da Giordano Conti da una pietra situata all'ingresso del paese, poi detta, per questo, la "petra réa". Conti era mosso da odio verso il papa, che lo aveva privato delle sue proprietà a Sgurgola. Alla spedizione presero parte anche i suoi familiari Gualcano e Pietro (Giammaria, 2004).
Secondo altre fonti il luogo del raduno non poteva essere Sgurgola, in quanto era feudo dei Caetani. A Ceccano, nel bosco di Faito, esiste un luogo chiamato "la pietra del Mal Consiglio", e, ai piedi dell'altura di Anagni, sarebbe esistita la "Pietra Rea", che, secondo la leggenda, devono i loro nomi all'aver ospitato il capo dei congiurati mentre arringava i suoi uomini. Per Giammaria
(2004) e Fedele (1921a), il luogo più probabile sarebbe stato Ferentino, tradizionalmente avversa a Bonifacio, ai Caetani e ad Anagni.

L'assalto
Gli assalitori entrarono ad Anagni il 7 settembre 1303 all'alba o poco prima (mane ante auroram)
(manoscritto di Vienne), trovando le porte aperte, forse per un tradimento da parte di alcuni anagnini, tra i quali Adinolfo Di Matteo (menzionato anche come Di Papa), acerrimo nemico del papa, che nel maggio 1297 insieme a suo fratello Nicola aveva dovuto vendere a Pietro Caetani, nipote del papa, detto il marchese, il palazzo di Anagni in cui poi lo stesso Pietro fu assediato. Secondo Giovanni Villani i nobili e i cittadini anagnini furono corrotti dal denaro di Nogaret, e d'altra parte molti dei congiurati italiani erano sul libro paga del re di Francia. Ferretto Vicentino identifica in Goffredo Bussa (Sigonfredus de Bussa), comandante delle guardie del papa il responsabile, reo confesso, della consegna delle chiavi (Giammaria, 2004).
I congiurati irruppero nella città brandendo le insegne gigliate di Francia e quelle pontificie con le chiavi incrociate
(Compagni), inneggiando al re di Francia ed ai Colonna, ed inveendo contro Bonifacio. Gli abitanti svegliati dal clamore scesero in strada e seppero che Sciarra Colonna voleva catturare il papa, così suonarono le campane per convocare un'assemblea; probabilmente il popolo di Anagni era d'accordo in anticipo sull'attacco, arringato dalla fazione locale dei nemici del papa, guidata da Adinolfo, che nel corso dell'assemblea fu eletto capitano della città e al quale subito i maggiorenti del popolo giurarono fedeltà, promettendo di seguirne gli ordini.
Dopo l'assemblea gli assalitori si divisero
(Fedele, 1921a): una parte, guidata da Sciarra Colonna, attaccò il palazzo del papa e quello di suo nipote, il marchese Pietro Caetani, che fu difeso in modo accanito dagli occupanti, con lancio di sassi e tiri di balestra (De horribili insultatione), mentre un altro gruppo era agli ordini di Rinaldo da Supino, capitano di Ferentino e membro della famiglia Conti (cognato peraltro di Francesco Caetani), dei figli di Goffredo da Ceccano, che era stato imprigionato dal papa, di Adinolfo e Nicola Di Matteo e Massimo di Trevi. Questo gruppo assalì i palazzi di tre cardinali ritenuti amici del papa, Pedro Rodríguez Quijada, vescovo di Burgos (riportato come Pietro Roderici o come "il cardinale di Spagna"), Francesco Caetani, nipote del papa e Gentile Portino da Montefiore (1240-1312), francescano e cardinale di S. Silvestro e S. Martino ai Monti, penitenziere del papa. Secondo altre fonti fu assalito anche il palazzo del cardinale Teodorico da Orvieto. I cardinali si salvarono fuggendo dal retro dei loro palazzi, attraverso le latrine, ma le loro dimore furono spogliate di ogni bene.
L'insuccesso della difesa spinse Bonifacio a chiedere una tregua, che fu concessa da Sciarra fino all'ora nona, cioé fino al primo pomeriggio. Durante la tregua il papa avrebbe inviato messaggeri agli anagnini, promettendo loro ricompense se lo avessero aiutato, ma la risposta dei suoi concittadini fu che si rimettevano alle decisioni di Adinolfo, al quale avevano affidato le sorti della città.
Il papa chiese allora a Sciarra quali fossero i torti che lamentava, offrendo una riparazione, ma la risposta fu che il risarcimento doveva essere la consegna di tutto il tesoro della chiesa romana nelle mani dei due o tre cardinali più anziani di tutto il collegio, il reintegro dei cardinali Pietro e Giacomo Colonna e di tutti gli altri Colonna nei loro poteri spirituali e materiali, la rinuncia al papato e la messa a disposizione dei Colonna dello stesso papa. A queste condizioni il commento del papa fu: “ahimè che duro discorso!”.
Ulteriori mediazioni non portarono risultati, così Sciarra e i suoi uomini diedero fuoco alle porte della cattedrale di Santa Maria, che costituiva un impedimento per gli assedianti, rapinando inoltre religiosi e laici, soprattutto mercanti di coltelli, che si trovavano nei pressi. All'interno della cattedrale fu assassinato l'arcivescovo ungherese di Esztergom, Gergely Bicskei, ucciso dall'anagnino Orlando di Luparia, figlio di Pietro, forse per una ritorsione personale.
La topografia attuale di Anagni non si accorda con la dinamica dei fatti raccontati dai testimoni dell'epoca: oggi tra la cattedrale e il palazzo identificato come quello di Bonifacio si trova un'ampia piazza, che non consente di pensare che la chiesa fosse effettivamente un ostacolo per chi intendeva assediare il palazzo del papa. Secondo Fedele
(1921a) l'equivoco nasce da un'errata interpretazione della cronaca latina, e l'incendio della cattedrale e l'assalto al palazzo del papa sono due episodi distinti.
A questo punto il marchese Pietro Caetani si arrese, e fu imprigionato nel suo palazzo in cambio della salvezza per sé e per i suoi figli, Roffredo, detto "il Conticello" e Benedetto, che pure avevano tentato di fuggire, ed erano prigionieri in casa di Adinolfo Di Matteo
(Fedele, 1921a). Il cardinale Francesco Caetani, altro nipote del papa, si era dato alla fuga travestito da valletto, in un luogo nei dintorni di Anagni, ma sarebbe stato comunque catturato nella stessa giornata (Fedele, 1921a). Gli assalitori, rotte porte e finestre, fecero irruzione nel suo palazzo, incendiandolo in più punti.
Nogaret affermò, in una deposizione resa a Parigi esattamente un anno dopo l'assalto, di non aver preso parte alla fase iniziale dell'assalto, perché era lontano dal palazzo papale, forse in casa di Adinolfo, a trattare con il marchese Pietro la resa del papa, e per esigenze personali ("propter necessitatem suae personae")
(Fedele, 1921a).

Lo schiaffo
Nel palazzo di Bonifacio VIII ad Anagni viene indicata la "sala dello schiaffo", dove si racconta sia avvenuto il fatto, ma non tutte le fonti dell'epoca riferiscono di un vero e proprio colpo dato al papa all'atto dell'arresto, e quindi lo "schiaffo di Anagni" andrebbe inteso in senso figurato, come una grave umiliazione inferta al capo della Chiesa di Roma. Il cardinale Niccolò di Boccassio, il futuro papa Benedetto XI, che racconta i fatti come se fosse stato presente, riferisce comunque di un vero e proprio schiaffo, (“manus in eum injecerunt impias”), altre fonti riferiscono di un'aggressione con parole ingiuriose e gravi minacce, alle quali il papa non avrebbe risposto.
Se lo schiaffo ci fu va probabilmente imputato a Sciarra Colonna, che quanto meno avrebbe tentato di darlo, e sarebbe stato fermato in tempo. Nelle Chroniques de Saint-Denis si parla del tentativo di Sciarra di uccidere il papa, spinto dall'odio di famiglia, bloccato da Nogaret, che si vantò di averlo salvato due volte dalla morte e addirittura di non averlo toccato nè aver consentito che lo toccassero ("persona eius nec tetigi nec tangi feci")
(Fedele, 1921a), anche perché gli premeva soprattutto di consegnare il papa vivo a Filippo IV.
Nelle stesse cronache si parla del ferimento in viso del papa da parte di un cavaliere dei Colonna, mentre Dino Compagni
(1255-1324) parla di un ferimento del pontefice, avvenuto però a Roma e seguito dal decesso del papa (fu menato a Roma ove fu ferito nella testa, e dopo alcun dì arrabbiato si morì) (II, XXXV). Dante Alighieri nella Divina Commedia non menziona Nogaret, come anche la cronaca di St. Alban, che parla solo di Sciarra. Sembra comunque chiaro un contrasto tra i Colonna, con i loro alleati locali, ed i francesi sul da farsi, ossia se uccidere il papa o consegnarlo vivo al re di Francia. Sciarra sarebbe poi tornato all'assalto, schiaffeggiando il papa addirittura con un guanto di maglia di ferro, riuscendo a colpirlo e forse rompendogli il naso. William Hundleby racconta che il papa non avrebbe subito alcun danno fisico, ma forse si riferisce a danni visibili (Lefèvre).
L'aggressione avvenne all'ora del vespero (circa le sei di sera); secondo una versione dei fatti Bonifacio voleva fingersi morto per sfuggire all'arresto, ma visto il carattere forte del papa è più credibile la versione, riportata da Giovanni Villani, secondo cui avrebbe invece atteso i congiurati seduto sul trono papale, munito di tutti i simboli del potere pontificio, e stringendo un crocifisso, che baciava ripetutamente. Secondo le croniche di Orvieto invece il papa era a letto quando lo trovano gli assalitori.
Nogaret, intervenuto, come visto, in un secondo tempo, avrebbe intimato al papa di seguirlo a Lione, dove il concilio convocato dal re avrebbe dovuto deporlo, e gli assalitori avrebbero ripetutamente ingiunto al papa di rinunciare al trono, ma il papa avrebbe risposto "Ec le col, ec le cape", ossia: "ecco il collo, ecco la testa" intendendo che sarebbe morto piuttosto che abdicare. Bonifacio avrebbe anche detto "Nosco primogenitum sathane", cioè "riconosco il primogenito di Satana", probabilmente riferito a Nogaret
(Giammaria, 2004).
Il papa avrebbe anche apostrofato Nogaret definendolo "figlio di Catari", in effetti Raymond de Nogaret, ministro cataro, condannato come eretico al tempo della crociata degli Albigesi, pur senza essere arso sul rogo potrebbe essere stato il nonno di Guillaume
(Dossat). Bonifacio conosceva Nogaret perché questo era stato inviato da Filippo IV come ambasciatore presso il papa nel 1300, e di questa esperienza aveva lasciato un colorito e pittoresco resoconto.
Pare che dei componenti la corte del papa solo tre o quattro fossero rimasti con lui, tra cui il cardinale Niccolò di Boccassio, suo futuro successore, ed il cardinale di Spagna, che gli era molto devoto, tanto da voler essere sepolto ai suoi piedi (ad pedes dominus sui), due cubicularii, addetti al servizio personale del papa, un cavaliere ospitaliere ed un templare, Giacomo Pocapaglia e Giovanni Fernandi, mentre gli altri sarebbero stati uccisi, o sarebbero fuggiti o si sarebbero uniti agli assalitori al grido di "viva il re di Francia ed i Colonna, morte al papa e al marchese" riferendosi a Pietro Caetani, nipote del papa. Gli assalitori saccheggiarono anche le proprietà del papa e dei Caetani, tanto da svuotare completamente le casse pontificie e prelevando abiti, suppellettili, oro e argento e tutto ciò che vi trovarono. Gli assalitori avrebbero oltraggiato le reliquie e danneggiato molti documenti dell'archivio (Tabularium) del papa
(Giammaria, 2004). Secondo Nogaret il saccheggio degli appartamenti del papa fu anche opera dei parenti e domestici del papa. Anche le case e le persone del quartiere Castello, in cui si trovano i palazzi papale e dei Caetani, sarebbero stati vittima dei saccheggi (Giammaria, 2004). Anche Symon Gerardus, banchiere del papa fu derubato di tutto e a mala pena salvò la vita. Secondo Hundleby nessun sovrano al mondo avrebbe elargito in un anno quanto fu rubato dai palazzi del papa e dei suoi sodali in poche ore. Ssecondo stime il papa nel corso del suo pontificato aveva accumulato una fortuna: 2.265.000 fiorini di reddito. Saputo del saccheggio Bonifacio avrebbe commentato: "Dominus dedit, Dominus abstulit" (Dio me l'ha dato, Dio me l'ha tolto). Il papa fu chiuso nella sua camera e guardato a vista da numerosi armati, ma senza essere legato né incatenato, secondo un altro racconto fu imprigionato nel palazzo di Rinaldo da Supino.
Fawtier nota che mancano riferimenti ai fatti d'Anagni in altri documenti contemporanei, e lo considera una prova dello scarso peso dato all'epoca a questo incidente. Fedele
(1921a) ritiene invece che l'aggressione al papa suscitò grande commozione in Italia, come testimoniato da Dante e da diverse altre fonti contemporanee. Il cardinale Jacopo Gaetano Stefaneschi (1270-1343), non presente all'oltraggio, nel suo Opus metricum, descrive l'evento come una "grave disgrazia, funesta e malsana" (gravis alluvies, funesta et morbida).

La liberazione
Lunedì 9 settembre, dopo tre giorni di prigionia nel palazzo di Anagni Bonifacio e il marchese Pietro furono liberati dagli anagnini in armi, stavolta al grido di "viva il papa, morte agli stranieri!" che cacciarono gli invasori, in scontri che causarono diverse vittime. Il cambio di schieramento degli abitanti di Anagni sembra sia avvenuto nel corso di un'assemblea, alla quale non avevano partecipato né Adinolfo né i Colonna, decisa dopo che era arrivata la notizia che gli assalitori volevano uccidere il papa. Nel corso di essa sorse tra gli abitanti il timore di esporre Anagni davanti a tutta la Cristianità come la città che aveva permesso la cattura del Papa, sebbene avesse fatto molte cose sbagliate nella vita, e sembrò che la cosa migliore fosse quindi assaltare il palazzo papale, giurando inoltre che se i carcerieri del papa incaricati dal capitano e da Sciarra avessero fatto loro resistenza non ne avrebbero lasciato vivo nessuno. L'azione fu probabilmente rapidissima: tra l'assemblea, tenuta alle nove, e la liberazione del papa sarebbero passate solo tre ore
(Giammaria, 2004).
Alcuni ritengono che anche le brutalità, e in particolare i saccheggi, dei soldati assalitori verso gli anagnini abbiano contribuito al cambio di schieramento della popolazione
(Tolomeo da Lucca). Hundleby parla di una forza di 10.000 uomini armati, ma sembra eccessiva, visto che Anagni aveva poche migliaia di abitanti (nel 1420 ne aveva 3.200). I liberatori trovarono resistenza, ma alla fine, verso mezzogiorno, riuscirono ad entrare e a cacciare gli occupanti, che ebbero molte perdite; molti per fuggire, si sarebbero gettati dalle finestre. Sciarra e i suoi furono cacciati da Anagni, tra insulti e minacce degli abitanti, mentre Rinaldo e Roberto di Supino, Adinolfo di Matteo e molti altri sarebbero stati catturati. Secondo altri anche Nogaret fu ferito (manoscritto di Orvieto) e fu costretto a fuggire a Ferentino, mentre la bandiera gigliata francese sarebbe stata trascinata nel fango (Giammaria, 2004).
Anche i palazzi dei nipoti del papa furono liberati. Arrivati alla presenza del papa uno del gruppo degli anagnini parlò per tutti chiedendogli di poter custodire la sua persona finché era in pericolo. Il papa avrebbe alzato gli occhi e le mani al cielo ringraziando Dio e la cittadinanza per averlo liberato dal pericolo di morire. Il papa fu portato dagli anagnini, al grido di ”Viva il Santo Padre!”, sulla piazza della cattedrale, adiacente al palazzo, dove piangendo ringraziò Dio e tutti i santi ed il popolo di Anagni per avergli salvato la vita. Bonifacio avrebbe poi chiesto del cibo e delle bevande, essendo ancora digiuno, promettendo in cambio assoluzione e perdono. Il palazzo sarebbe quindi stato invaso di una processione che gli portava vino e cibo. Secondo Nogaret, invece, il papa aveva avuto a disposizione cibo e bevande, e forse non aveva mangiato per paura di essere avvelenato o per protesta contro l'imprigionamento.
Bonifacio permise che ciascuno che entrava nel palazzo potesse parlare con lui, e lamentò di essere stato lasciato privo di ogni bene, povero come Giobbe, perdonò espressamente tutti quelli che avevano rubato i beni del suo patrimonio personale, ed avrebbe assolto tutti, tranne i saccheggiatori dei beni della chiesa di Roma e dei cardinali e degli altri della curia, a meno di restituire il maltolto entro tre giorni. Parte della refurtiva fu effettivamente riportata, ma molto rimase nelle mani dei saccheggiatori. Bonifacio avrebbe liberato Rinaldo da Supino
(Giammaria, 2004) ed avrebbe promesso di fare la pace con i suoi nemici, in particolare i Colonna, e di reintegrarli nei loro beni materiali e spirituali.
L'esito della crisi di Anagni ebbe ripercussioni in tutta l'area, fino a Napoli, con scontri tra i Caetani ed i loro alleati contro le famiglie nemiche, che erano rientrate in possesso dei territori conquistati dai Caetani
(Giammaria, 2004).

La morte
Il papa rimase sotto la custodia del comune di Anagni, fino al 12 settembre (o al 13) quando inaspettatamente e improvvisamente rientrò a Roma, che riteneva l'unico luogo in cui poteva salvarsi, visto il gran numero di nemici che si era creato. Si mosse scortato da un gran numero di suoi sostenitori armati, forse 400
(Guigniaut, De Wailly). Questo seguito era arrivato ad Anagni in soccorso del papa ed aveva collaborato alla sua liberazione (manoscritto di Padova). Il papa pernottò nel Laterano dove stette per due giorni ed il terzo giorno si trasferì a S. Pietro. Anche a Roma però la situazione era critica, anche se la potente famiglia Orsini, tradizionale rivale dei Colonna, era del tutto schierata con il papa.
Gli Orsini controllavano storicamente il nord di Roma e le zone di Campagna adiacenti, sulle vie Flaminia, Salaria e Cassia, mentre i Colonna, prima dell'espansione dei Caetani, mantenevano il controllo del sud della città e delle aree intorno alle vie Appia, Prenestina e Casilina.
Molti romani erano però contro il papa e con i Colonna, i senatori di Roma si erano dimessi, non c'era più un solo giudice ad amministrare la legge ed ognuno doveva difendersi da sé. Il papa, terrorizzato e traumatizzato, era barricato nel palazzo di S. Pietro senza ricevere nessuno, mentre la Curia vaticana era bloccata, e nessuno poteva fuggire dalla città perché da ogni parte c'erano briganti che rapinavano i passanti. Il papa, già malato di calcolosi renale, morì circa un mese dopo lo schiaffo, nella notte tra l'11 e il 12 ottobre 1303. Giovanni Villani
(IX, 63) racconta: "il dolore impetrato nel cuore di papa Bonifazio per la ’ngiuria ricevuta gli surse, giunto in Roma, diversa malatia, che tutto si rodea come rabbioso, e in questo stato passò di questa vita".
Il giorno seguente il papa fu sepolto in S. Pietro, nella cappella Caetani, in un monumento funerario (vedi foto1, foto2 e rilievo) eseguito dal grande Arnolfo di Cambio. Si racconta che il giorno del funerale si scatenò una furiosa tempesta. Questo sarebbe accaduto anche ad Orvieto, nel giorno in cui aveva celebrato la sua prima messa, come riportato dal manoscritto di Orvieto e, in versi, da Jacopone da Todi ("Quando la prima messa da te fo celebrata, venne una tenebria per tutta la contrata, en santo no remase luminera apicciata, tal tempesta levata là 've tu stavi a ddire")
(83: 35-38). Questi fenomeni meteorologici, ammesso che siano realmente accaduti, furono evidentemente interpretati come presagi negativi. In effetti in Italia i temporali autunnali, anche violenti, non sono affatto un fenomeno raro, tantomeno soprannaturale.
La fine di Bonifacio VIII, ultimo dei papi anagnini, determinò anche la decadenza della città, quasi avverando la maledizione di Benedetto XI, successore di Bonifacio, contro la sua città natale, che non lo aveva difeso: "la rugiada e la pioggia non più cadano sopra di te; discendano su altre montagne perché tu, spettatrice e potente ad impedirlo, quel forte facesti cadere e quel cinto di robustezza fu soverchiato"
(Giammaria, 2004).

Dante e Bonifacio
Anche Dante Alighieri parla dello schiaffo di Anagni nella Divina Commedia
(Purgatorio, XX, 85-90): "perché men paia il mal futuro e il fatto, veggio in Alagna entrar lo fiordaliso, e nel vicario suo Cristo esser catto. Veggiolo un'altra volta esser deriso; veggio rinnovellar l'aceto e 'l fele, e tra vivi ladroni esser anciso".
La voce narrante è quella di Ugo Capeto
(941-996), capostipite della dinastia dei Capetingi ("radice de la mala pianta") (id., 43), antenato di Filippo il Bello. Dante condanna l'oltraggio fatto dalla Francia ("lo fiordaliso") al papa in quanto vicario di Cristo, considerandolo un offesa fatta a Cristo stesso, quasi una nuova crocifissione, perpetrata con l'avallo del re, a dispetto della successiva presa di distanza ("novo Pilato") (id., 91). I versi riecheggiano il discorso tenuto a Perugia da Benedetto XI, successore di Bonifacio, in occasione della promanazione della bolla di scomunica contro gli aggressori di Anagni. Secondo Fedele (1921a), Dante sarebbe stato presente all'evento, e ne avrebbe tratto ispirazione.
Tutto questo nonostante il poeta fosse decisamente ostile a Bonifacio VIII, che aveva indirettamente favorito il suo esilio da Firenze, appoggiando la parte dei Guelfi neri, e alla Curia papale, accusata di commercio di cose divine "là dove Cristo tutto dì si merca"
(Paradiso, XVII, 51).
Dante pone Bonifacio all'Inferno, nella terza bolgia
(XIX, 76-87), tra i simoniaci, coloro che fecero commercio delle cose sacre, che scontano la pena piantati nel terreno a testa in giù e con i piedi avvolti dalle fiamme. L'arrivo del papa all'Inferno è collocato in un periodo successivo alla visita di Dante, e l'evento è predetto da papa Niccolò III, a sua volta condannato, che annuncia il prossimo arrivo anche di Clemente V, definito "un pastor sanza legge" (id., 83). Papa Niccolò, rivolto a Dante, ma credendo di parlare con Bonifacio, gli chiede se sia già sazio di quelle ricchezze per le quali non ha temuto di ingannare e depredare la Chiesa di Roma ("la bella donna"): "Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio, per lo qual non temesti tòrre a ’nganno, la bella donna, e poi di farne strazio?" (id., 52-57).
Dante fa anche parlare San Pietro, che definisce Bonifacio "Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, il luogo mio, il luogo mio, che vaca, ne la presenza del Figliuol di Dio, fatt’ha del cimitero mio cloaca, del sangue e de la puzza; onde ’l perverso, che cadde di qua sù, là giù si placa", con l'ultimo verso riferito al Demonio, che si bea della corruzione della Chiesa
(Paradiso, XXVII, 22-27). Anche il verso "non fu la sposa di Cristo allevata / del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto / per essere ad acquisto d'oro usata" (id, 40-42) è una polemica contro Bonifacio VIII per la sua tendenza ad arricchirsi approfittando della carica di pontefice, in opposizione ai primi papi, Pietro, Lino e Cleto, che invece avrebbero dato il sangue per la Chiesa.
In un altro canto Dante affida al trovatore e vescovo Folchetto da Marsiglia il compito di maledire la brama di denaro che, originatasi da Firenze, ha corrotto il papa e i cardinali, tanto che non si occupano più di religione: "non vanno i lor pensieri a Nazarette, là dove Gabriello aperse l’ali"
(Paradiso, IX, 136-138). Il papa, pur non citato esplicitamente, è Bonifacio VIII, e il poeta prevede imminente la sua fine: "Ma Vaticano e l’altre parti elette, di Roma che son state cimitero, a la milizia che Pietro seguette, tosto libere fien de l’avoltero" (id, 139-142).
Un altro riferimento a Bonifacio è nel canto XXVII dell'Inferno, nel quale Guido da Montefeltro biasima il papa per averlo spinto a ricadere nel peccato ("il gran prete, a cui mal prenda!, che mi rimise ne le prime colpe")
(70-71), meritandosi la dannazione eterna. Guido si era redento da una vita peccaminosa da condottiero, facendosi frate, ma Bonifacio lo avrebbe costretto o convinto (promettendogli l'assoluzione) a mettere a disposizione la sua esperienza, dandogli consigli ("consiglio frodolente") (id., 116) su come conquistare la roccaforte colonnese di Palestrina, tra l'altro promettendo clemenza agli abitanti in caso di resa, senza poi mantenere i patti. Una parte degli storici non ritiene che questo tradimento sia realmente avvenuto (Fedele, 1921b). Guido biasima Bonifacio anche per aver fatto guerra ai Colonna, "vicini di casa", invece che ai seguaci di altre religioni "lo principe d'i novi Farisei, avendo guerra presso a Laterano, e non con Saracin né con Giudei" (id, 85-87).

Dopo lo schiaffo
Dopo lo schiaffo di Anagni e la morte di Bonifacio VIII il contrasto tra la chiesa e Filippo il Bello si attenuò, ma il nuovo papa Benedetto XI, il domenicano trevigiano Niccolò di Boccassio, che da cardinale aveva forse assistito all'aggressione di Anagni, in una bolla del 6 novembre 1303, quindici giorni dopo la sua elezione a papa e dopo due mesi dall'assalto, inveiva contro i "molti figli dell'iniquità, primogeniti di Satana e discepoli di iniquità" che avevano "selvaggiamente alzato le mani" sul suo predecessore e lo avevano derubato del tesoro della Chiesa. Se questi empi non avessero restituito il maltolto sarebbero stati scomunicati al suono delle campane e a lume spento
(Fedele, 1921a).
Benedetto escluse i congiurati dall'assoluzione generale del 12 maggio 1304 e li condannò esplicitamente con la bolla Flagitiosum scelus del 7 giugno 1304, promanata da Perugia, scomunicando i quindici caporioni della congiura, additandoli alla vendetta della cristianità, e condannando la città di Anagni, che aveva permesso l’affronto al papa. Con la bolla il papa convocava alla sua presenza gli scomunicati per il 29 giugno, festa di san Pietro e Paolo, per aver messo le mani addosso al papa, attaccandolo anche verbalmente con frasi blasfeme e vergognose. Lo stesso giorno, da una piazza di Perugia, il pontefice aveva parlato alla folla, deplorando l'aggressione fatta al vicario di Cristo, paragonando la sua sorte a quella di Cristo nelle mani di Pilato e dei suoi soldati.
Il papa comunque attenuò i contrasti con Filippo il Bello, trattandolo da sovrano legittimo, visto che comunque la scomunica non era stata pubblicata. Un mese prima forse era stato lo stesso Boccassio ad indurre Bonifacio VIII a perdonare i suoi aggressori, nel discorso tenuto al popolo di Anagni dopo la liberazione.
La reazione degli anagnini all'anatema del nuovo papa fu un processo, intentato contro i partecipanti all'aggressione a Bonifacio, che furono banditi per sempre da Anagni, sotto pena di decapitazione in caso di ritorno, ed ebbero confiscati tutti i beni. Queste sanzioni non erano soggette a revoca, anzi, chiunque avesse proposto al consiglio od al parlamento il richiamo in città degli esiliati, sarebbe stato condannato ad una multa di mille fiorini, o alla decapitazione. La sentenza fu probabilmente influenzata in modo marcato dalla bolla di papa Benedetto
(Fedele, 1921a).
La bolla Flagitiosum scelus suscitò grandi reazioni in Europa, il 23 giugno il re di Napoli Carlo II d'Angiò si scagliò contro la "detestabilis malignitas" definita "esecrabile azzardo" ("exsecrabilis ausus") commesso contro il papa Bonifacio, vietando con minacce ai suoi sudditi di appoggiare i congiurati, ordinando di denunciare quelli di loro che si erano rifugiati nel regno e di sequestrare eventuali beni rubati al tesoro della Chiesa
(Fedele, 1921a).
La situazione volse a favore della Francia quando il 7 luglio 1304, un mese dopo la bolla, il breve pontificato di Benedetto XI ebbe termine a Perugia: il papa morì per un indigestione di fichi. Villani
(IX, 80) riferisce di voci di avvelenamento da parte di un uomo che aveva offerto i fichi al papa vestito da donna per placarne la diffidenza. Il nuovo conclave dopo 11 mesi (5 giugno 1305) elesse papa, con il nome di Clemente V, l'arcivescovo di Bordeaux, Bernard de Got (1264-1314), che trasferì il papato ad Avignone, dove restò fino al 1377. Il 17 dicembre 1305 il papa reintegrò Giacomo Colonna nella potestà cardinalizia e lo stesso fece il 2 febbraio 1306 con Pietro Colonna, e il 25 marzo 1307 annullò o addirittura ignorò le condanne contro il re di Francia, con la bolla Tunc navis Petri.
Il 27 aprile 1311 Guillaume de Nogaret ottenne da Clemente V, con la bolla Rex gloriae, (o "Ad certitudinem praesentium") l'assoluzione "ad cautelam" per i protagonisti dell'episodio di Anagni, che era stata negata dal suo predecessore, distinguendo l'imprigionamento (la «captio») dall'aggressione fisica («aggressio vel insultus tactus in Bonifacium»). Clemente concordò la distruzione dei documenti papali contro il re, abradendo le parti pericolose o tagliando intere pagine
(Frale). Con la bolla il re di Francia fu condannato a pagare le spese del processo, fissate in 100.000 fiorini d'oro. Nogaret era stato gratificato dal re per l'impresa con l'assegnazione di una grossa somma di denaro e terreni.
In cambio dell'assoluzione Clemente V chiese la partecipazione alla prossima crociata e a un certo numero di pellegrinaggi in Spagna e Francia, che comunque Guillaume non eseguì.
Per scongiurare il pericolo di una possibile pubblicazione della bolla di scomunica, Filippo il Bello fece intentare un processo contro il defunto Bonifacio VIII per dimostrare la sua qualità di eretico e di conseguenza farne bruciare il corpo, in modo da annullare gli effetti della bolla. Al processo, iniziato ad Avignone nel settembre 1309, parteciparono molti testimoni venuti dall'Italia, che però avevano motivi di rancore verso Bonifacio VIII e che riferirono di episodi di stregoneria fin troppo aderenti ai cliché del tema e raccontando di frasi blasfeme ed eretiche pronunciate da Benedetto Caetani prima e dopo l'elezione al soglio pontificio, con deposizioni troppo simili per non sembrare concordate.
Sia Nogaret sia Rinaldo da Supino cercarono di prendere le distanze da Sciarra Colonna, e quindi dalle violenze contro il papa. Rinaldo evitò di nominare Sciarra, mentre Nogaret negò di essere stato a conoscenza di contrasti tra il papa e il Colonna
(Fedele, 1921a, 1921b).
Clemente V si oppose alla condanna postuma del suo predecessore Bonifacio, che avrebbe annullato tutti i suoi atti e le sue decisioni, anche quelle con effetto civile, con grave danno per molti cittadini. Le accuse erano di blasfemia, ateismo, stregoneria, sodomia, lussuria, aver abusato di bambini ed aver ingravidato due nipoti, i cui figli aveva poi nominato cardinali. Nessuna prova credibile era stata portata di queste accuse. Nell'estate del 1310 Clemente si oppose alle accuse a sfondo sessuale, che tra l'altro non concordavano con l'età avanzata del papa, e spinse a concentrarsi solo sulle accuse di eresia.

Le fonti
I fatti di Anagni sono descritti in diversi racconti, alcuni dei quali sembrano redatti da testimoni degli avvenimenti:

- Flagitiosus scelus. Bolla di papa Benedetto XI, al secolo Niccolò di Boccassio, successore di Bonifacio VIII, che all'epoca era cardinale e racconta i fatti come avvenuti sotto i suoi stessi occhi (in nostris etiam oculi).

- De horribili insultatione et depredatione Bonefacii pape. Manoscritto Reg. XIV, c., I del British Museum, pubblicato a Parigi nel 1872 dal Barone Joseph Kervyn de Lettenhove sulla Revue des question historiques. Il manoscritto fu prodotto nell'abbazia di Saint Albans, non lontano da Londra, dal monaco benedettino William Rishanger, detto "Chronigraphus", che lo aveva copiato in coda ai suoi annali sul regno di Edoardo I. L'autore, ignoto, racconta i fatti come se vi fosse stato presente e accenna al fatto di essere originario di Cesana. In Italia esistono tre località denominate Cesana, una in Piemonte, in Val di Susa, una nel lecchese ed un'altra nel bellunese. Comunque è possibile che il riferimento sia errato e l'autore fosse di Cesena.

- Manoscritto di Vienne. Redatto da una persona che si definisce membro della corte papale e testimone oculare dei fatti di Anagni, probabilmente tra il 1306 ed il 1311. Sarebbe quindi una narrazione di fatti vissuti qualche anno prima, ma sulla base di una lettera scritta nell'immediatezza dei fatti, visto che non menziona la morte di Bonifacio VIII, accaduta poco più di un mese dopo i fatti di Anagni. Fu acquistato a Vienne (Delfinato, Francia) nel 1696 ed entrò a far parte della collezione di Jean Caulet vescovo di Grenoble, e poi della Biblioteca della stessa città dell'Isère.

- Memorandum quod anno domini M°CCC° tercio. Rapporto scritto il 27 settembre 1303 a Roma da William Hundleby, procuratore del vescovo di Lincoln John Dalderby presso la Curia romana e conservato presso il British Museum (Manoscritto Royal C I, fol. 12) e presso il college di All Souls a Oxford (manoscritto 39, fol 117b-120b). La fonte non cita nemmeno Guillaume de Nogaret.

- Nuova Cronica. di Giovanni Villani (1276–1348), fiorentino, compilata a partire dal 1300, a detta dell'autore, che non si dichiara testimone oculare dello schiaffo.

- Ferreti, poetae vicentini, suorum et paulo ante actorum temporum historia, di Ferretto Vicentino (Ferreto dei Ferreti, 1297-1337). Ovviamente non scrive come testimone oculare, per motivi anagrafici, e spesso riporta notizie imprecise.

Bibliografia:
BASSETTI Sandro (2007) Il cardinale Theodorico de' Ranieri. Lettera Orvietana, 18-19-20, agosto 2007: 8-9. (link)
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Siti visitati:
https://casatoranieri.wordpress.com/page/2/
http://it.wikipedia.org/wiki/Giacomo_Sciarra_Colonna
http://www.araldicavaticana.com/pbonifacio08.htm
https://www.comune.anagni.fr.it/
http://www.galleriacolonna.it/i-colonna/
http://www.palazzobonifacioviii.it/
https://www.corrispondenzaromana.it/bonifacio-viii-il-papa-del-primo-giubileo/
non pià raggiungibile al 26 maggio 2022
http://perso.orange.fr/jean-francois.mangin/capetiens/capetiens_7.htm

pagina creata il: 11 gennaio 2009 e aggiornata a: 26 maggio 2022